Matteo Masiello

il pittore e le sue percezioni dell’invisibile…

di Nicola Pice

oggi ad un anno dalla sua scomparsa voglio ricordare un grande amico, Matteo Masiello, il pittore e le sue percezioni dell’invisibile…

Ut pictura poesis, diceva il buon Orazio: come consonanza tra la pittura (poesia muta) e la poesia (pittura parlante), come a voler significare di dover cogliere dentro i colori e le geometriche costruzioni di un quadro la venatura poetica e il paesaggio interiore. Così quando diciamo la pittura di Masiello, parliamo di colori, di lirismo, di reminiscenze inconsce.

Si potrebbe parlare di pittura sparsa, di neo-informale, di ascendenze kandinskyane, di colore in movimento, ma la verità è che le opere di questo artista non vanno lette, bensì guardate, consapevoli che siamo di fronte ad una sorta di ricerca filosofica.

La sua produzione si è difatti sempre più affrancata dalle ambizioni avanguardistiche degli anni Settanta, per giungere di volta in volta ad una semplicità ironica e ad una sapienza delle citazioni sostenute dall’inesausta passione per il colore e dal dominio della tecnica, mescolando mito e realtà, sacro e profano, giochi di specchi e di cornici, toni seri e sentimento del giocoso, tragico e grottesco.

Ed ecco in scena i suoi personaggi, spesso maschere dolenti, gli affreschi di mondanità, i mercatini arabi, le feste nuziali, un’infanzia fabulatoria, la morte e i riti di passaggio che tutte le età non smettono di imporci, ma poi anche le storie di San Nicola e le crocifissioni come riflessioni sulle ragioni della vita.

I suoi quadri traducono spesso uno stato di angoscia, che si tramuta in narrazione, un subcosciente di straordinaria acutezza, che si risolve in storie abbacinanti, un’interiorità che non sa astrarsi dal destino collettivo. Un dualismo di nera malinconia e ilare auto-svilimento, che, come nelle storie di Kafka, produce il gioco delle metamorfosi, dei fantasmi, del labirinto, del fiabesco bizzarro.

A Masiello piace la nostalgia degli anni vissuti in libertà tra il mare e le campagne, avvertendo ancora il fascino dei profumi perduti e dei rumori sospesi nell’aria, gli piace cogliere la dimensione del tempo: il tempo come relazione tra il “prima” e il “poi”, tra passato, presente e futuro. Il tempo come eterno divenire. Il tempo come memoria. Il tempo come paradigma di una finitezza, che lo conduce anche ad una riflessione sulla morte, che non cessa di essere una riflessione sull’uomo: nascendo noi sposiamo la morte.

Separare i due termini, la vita e la morte, farne un prima e un poi, un qui e un altrove, è soprattutto una convenzione linguistica e una distinzione illusoria.

Il presente di Bradley: il presente è un istante che non ha durata, non contiene un “prima” e un “dopo”, non ha un inizio e una fine, ma è cosa fuori del tempo, magari è solo una cerniera tra un gioco di bimbi e un cumulo di ossa.

L’occhio della Sfinge: gli indefiniti confini tra realtà e finzioni, con l’enigma della sfinge con la sua storia tracciata sulla sabbia, che è smossa dal vento, ma lì ferma nel tempo di ogni tempo a significare l’irraggiungibilità di ogni certezza.

Dagli appunti di Valdès: la penisola di Valdès con i suoi spettacoli della natura che sorprendono e meravigliano il viaggiatore, i colori straordinari, la fauna sorprendente, l’intensità della luce, la pura umanità dei nativi, diventa il luogo per l’artista in cui si consumano in maniera limpida gli eterni eventi dell’essere e dei sogni, alla ricerca di quel filo di Arianna che consente di penetrare nell’intima scissura della vita, sotto gli sguardi frontali di un leone marino e della morte che si riflette nello specchio.

Eppure c’è calore nelle sue opere, avverti l’umanissima indulgenza del pittore per le maschere che la natura ci assegna. Il quadro si riempie di silenzio e spinge alla meditazione, perché, con Erich Fromm, Masiello sostiene che “l’atteggiamento di meditazione è la più alta attività che esista, un’attività dell’anima”.

È lo smarrimento dell’uomo di fronte agli insormontabili ostacoli del divenire, che vuole pervenire alla spiegazione dei principi essenziali della realtà, come il poeta tedesco Gottfried Benn che “pone il pensiero al posto della natura e fa del pensiero una realtà”. E il pensiero si fa sogno (“Il sogno, autore di rappresentazioni, nel suo teatro sul vento costruito, ombre suole vestir d’aspetto bello”, ripete Masiello con Luis de Gongora) e si fa memoria.

Tutto ciò che è diritto mente, ogni verità è curva, ripete con Nietzsche, ossia è ben consapevole dell’impervio percorso che conduce alla verità, una difficile e faticosa meta a cui nessuno può o deve sottrarsi.

Ma è soprattutto da Borges, lo scrittore argentino che fa del labirinto e della biblioteca, del sogno e della morte, dello specchio e degli scacchi alcuni dei suoi emblemi ricorrenti, al pari dell’enigma del tempo e dello spazio infinito, che Matteo deriva il senso del fantastico e del magico.

Fantasia e interiorità convivono in questo mondo pittorico affascinante e maestosamente silenzioso, per narrare virtualmente e flessibilmente lo smarrimento dell’uomo, il labirinto della sua anima, la vita come ricerca infinita e come eterno fluire dei suoi aspetti e delle sue apparenze. Un mondo pittorico con le sue percezioni dell’invisibile e con una infinita serie di storie.

Un linguaggio artistico che apre orizzonti di senso più che fornire indici di informazione sulla realtà mondana. Peccato davvero che la pittura di questo grande artista qui da noi non sia stata da tutti compresa.

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